La “cattiveria” nello Sport: ma è proprio una virtù?

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Avete mai fatto caso che durante le interviste a personaggi dello sport professionistico, spesso, forse per giustificare una sconfitta, una prestazione deludente ma a volte anche solo un momento di calo di tensione, vengono utilizzate affermazioni e interpretazioni colorite dalla parola “cattiveria“?

Eccone alcuni esempi, tratti dal web:

  • (calciatore): “Abbiamo tanta rabbia e cattiveria agonistica da sfogare sul campo” (da Bergamo nerazzurra)
  • (allenatore basket) “Contati e senza cattiveria: la coperta è logora.” (da PianetaBasket.com)
  • (allenatore calcio): “Mancata la cattiveria, bisogna lavorare sulla testa” (da Stadionews24)
  • (allenatore basket): “Credo sia fondamentale affrontare il match con la giusta cattiveria agonistica” (da OrlandinaBasket.it)
  • (calciatore): «Serve più cattiveria sotto porta» (da ilTempo.it)

… e potrei continuare ancora (provate questa ricerca su Google).

Leggendo le dichiarazioni sopra riportate senza conoscerne il contesto, verrebbero da fare considerazioni come: “se la squadra ha subìto una sconfitta significa che è mancata la giusta cattiveria“; oppure “se la prestazione degli atleti è stata sotto il livello richiesto, non è stata sufficientemente cattiva“; ma anche “se una squadra ha surclassato l’avversario, questo non è stato abbastanza cattivo“; e così via. E’ proprio questo il messaggio, il concetto, che hanno in mente tali sportivi? E’ questo il motivo a cui ricorrono la dirigenza, gli allenatori e i giocatori stessi per spiegare la sconfitta o una brutta prestazione? Personalmente, credo si tratti di un alibi.

Usiamo le parole giuste!

Se proviamo a cercare dei sinonimi della parola “cattiveria”, ecco il risultato: malvagità, malignità, perfidia, meschinità, bassezza, crudeltà, spietatezza, scelleratezza… E non è tutto, potremmo infatti continuare con: azione riprovevole, ingiustizia, mascalzonata, ribalderia, empietà, carognata… (fonte: dizionari.corriere.it).

Forse la parola “cattivo” – e tutti i suoi derivati – ha perso il suo vero significato e sta diventando un atteggiamento da adottare (come possono essere la tenacia, la passione, ecc.) per raggiungere i propri obiettivi.

Riprendiamo le affermazioni sopra citate e proviamo a sostituire la parola “cattiveria” con alcuni dei suoi sinonimi. Ecco il risultato:

  • “Abbiamo tanta rabbia e malvagità agonistica da sfogare sul campo”;
  • “Mancata la perfidia, bisogna lavorare sulla testa”;
  • “Credo sia fondamentale affrontare il match con la giusta crudeltà agonistica”;
  • “Serve più spietatezza sotto porta”…

Lette così, queste affermazioni sembrano piuttosto un “Mors tua, vita mea” ma non credo (non voglio credere) che sia proprio questo il messaggio che vogliono esprimere tali sportivi. Lo sport agonistico prevede l’impegno su molti aspetti che riguardano sia la sfera personale (fatica, concentrazione, allenamento fisico e mentale, motivazione, rinunce, compromessi, …) che quella sociale (rispetto, coesione, senso di appartenenza, complicità, vincoli, …). Generalmente questi impegni prevedono un esito che al momento della prestazione agonistica (gara, partita, ecc.) si esplicano in determinazione, responsabilità, forza, audacia, ecc.

Raggiungere il proprio obiettivo, sia che si tratti di una prestazione soddisfacente o di una vittoria, rappresenta il buon esito della nostra preparazione: il lavoro dell’atleta è quello di rispondere alle esigenze del proprio allenatore (nei giochi di squadra) o quelli personali (nei giochi individuali). In ogni caso l’obiettivo, se ben chiaro e definito, è il “movente” del nostro impegno ovvero ciò per cui stiamo lavorando.

Un obiettivo adeguato.

Come in tutti i casi della vita, a volte tra noi e l’obiettivo si frappongono degli imprevisti che potrebbero intaccare la nostra autostima: la pioggia che rende scivoloso il campo; il pubblico un po’ troppo ostile; un avversario in particolare stato di grazia; e così via. Senza un adeguato allenamento mentale – che in estrema sintesi significa imparare a concentrarsi sulla propria prestazione in modo che qualsiasi imprevisto risulti ininfluente – la difesa della nostra autostima ci impone di addurre giustificazioni della sconfitta che non sempre ne rappresentano il vero motivo. Il campo, appunto, era troppo sdrucciolevole, il pubblico troppo ostile, l’avversario troppo forte.

Ma se per la pioggia e la folla non posso farci niente, relativamente all’avversario posso fare qualcosa, che però non va nella (corretta) direzione del riconoscimento della sua forza o nel miglioramento del mio allenamento, bensì su questioni legate all’atteggiamento. C’è chi affronta una sconfitta con senso di frustrazione e, per uscirne, usa strategie che utilizzano “cattiveria” e “vendetta”. Questo è sport?

E’ questo che può accadere se affrontiamo le sconfitte in questo modo: diventiamo cattivi, e se non lo facciamo, dobbiamo imparare a farlo. Atleti e allenatori che parlano dunque di cattiveria dovrebbero capire che forse hanno utilizzato un sostantivo non corretto… Potrebbero parlare invece di veemenza, di determinazione, intensità, passione, ardore…

Sentite come suonerebbero meglio le solite dichiarazioni:

  • “Abbiamo tanta rabbia e passione agonistica da sfogare sul campo”;
  • “Mancata la determinazione, bisogna lavorare sulla testa”;
  • “Dobbiamo continuare ad avere questa intensità“;
  • “Serve più concentrazione“…

La sostanza delle affermazioni non cambierebbe ma finalmente avremmo utilizzato le parole corrette per descrivere quello che è accaduto. Credo che in questo modo potremmo essere innanzitutto più onesti con noi stessi perché daremmo nome alle emozioni invece di ricondurre tutto a una reazione; potremmo poi passare un bel messaggio (soprattutto ai giovani!) e abbassare un po’ i toni che – di questi tempi – è sempre una buona cosa.

La cattiveria non è una virtù: è semplicemente debolezza.

Per approfondire:

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