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I mezzi di trasporto sempre più veloci e disponibili ci fanno girare il mondo; le tecnologie informatiche ci mettono in connessione con moltissime persone; la distribuzione diffusa di conoscenze e informazioni grazie al web ci tiene sempre informati e aggiornati. Perché allora ci sentiamo sempre più soli? Perché spesso è questa la sensazione che proviamo: siamo soli in mezzo alla gente.
Un antropologo francese, Marc Augé, ha cercato di definire e approfondire il concetto di “nonluogo“. A dispetto di quello che una prima lettura potrebbe darci, il nonluogo non è uno spazio vuoto, un luogo che non esiste o un concetto troppo astratto o filosofico di assenza percepita. I non luoghi sono…
quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono nonluoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie. Il nonluogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito. (Augé, 1998).
La necessità del nonluogo.
Sappiamo che il centro commerciale, la stazione ferroviaria o l’aeroporto sono siti che ormai sono entrati (a pieno diritto?…) nella comprensione e definizione quotidiana del mondo che ci circonda. Possiamo criticare il fatto che il centro commerciale possa fagocitare il piccolo negozio del paese, oppure che la stazione o l’aeroporto siano un luogo di passaggio fugace… Sono la realtà: come detto, ormai fanno parte della nostra idea di “paesaggio urbano e psico-sociale”.
Frequentiamo i supermercati per soddisfare i nostri bisogni materiali e andiamo in stazione per intraprendere un viaggio, che sia di piacere o di pendolarismo: lo facciamo senza pensare che ci troviamo in un nonluogo, perché ormai il nonluogo è diventato uno dei nostri luoghi, come la propria casa, la piazza, il luogo di lavoro e così via.
D’altra parte non possiamo accusare il nonluogo per il semplice fatto che esiste: a volte riesce a soddisfare i nostri bisogni primari (quelli legati alla parte più bassa della piramide di Maslow, ovvero fisiologici e di sicurezza). L’errore è dietro l’angolo quando pretendiamo che questi nonluoghi soddisfino anche gli altri bisogni, quelli che Maslow ha posizionato nella parte più alta della piramide: appartenenza, stima, auto-realizzazione.
Nel nonluogo non troveremo mai la fonte del nostro bisogno di appartenenza, perché per definizione il nonluogo è un posto senza identità specifica; non vi troveremo neanche fonte di stima, perché l’interazione tra le persone è ridotta al minimo; e infine non potremmo sentirci realizzati, perché ogni nostra produzione difficilmente potrebbe essere valorizzata dall’assenza di particolari valori.
Il nostro compito non è quello di demonizzare il nonluogo ma di esserne consapevoli della specifica funzione e localizzazione.
Dal nonluogo fisico a quello psicologico.
E cosa ci accade quando siamo immersi in questi nonluoghi? Cosa succede alla nostra capacità di interpretare gli eventi e di interazione con il prossimo? Cosa ci portiamo dentro di noi quando lasciamo questi nonluoghi?
Tra i corridoi di un centro commerciali i nostri sensi sono aggrediti senza alcun contegno: voci, suoni, musica, strilli si mescolano in un minestrone di frequenze che non riusciamo più a distinguere singolarmente; illuminazione artificiale, insegne luminose, schermi su cui scorrono foto e video pubblicitari ci annebbiano la vista creando quell’appiattimento di immagini come se stessimo guardando un film; esalazione di profumi e odori che fuoriescono dai negozi e dalle persone che incrociamo o le cui scie ci investono spesso determinano i nostri movimenti verso o contro tali effluvi; poi spintoni, scale mobili, la testa che ruota tutto intorno per non perdere nessuna sollecitazione, un gelato, un panino o un caffè, un pranzo fugace dopo una coda interminabile…
Come ne usciamo da un ambiente come quello? Cosa ricordiamo di ciò che abbiamo fatto e come lo ricordiamo? Perché poi desideriamo così tanto tornarci ancora per ripetere meccanicamente le stesse operazioni e rivivere le stesse esperienze?
Nel centro commerciale, nel nonluogo, siamo stati soli e aggrediti da sensazioni esterne. Ecco perché spesso quando torniamo a casa dopo esperienze come queste ci chiediamo del perché abbiamo fatto molti acquisti ad esclusione di quello che ci serviva veramente…
A poco a poco, i nonluoghi ci “insegnano” che tutto è molto veloce e fugace, che se non ci sbrighiamo perdiamo molte buone occasioni. Ma occasioni a favore di chi? Della nostra crescita culturale ed emotiva? Non siamo qui disquisire sull'”etica del centro commerciale” o fare propaganda contro o a favore del “consumismo sfrenato come segno di schiavitù al capitalismo“: credo sia invece opportuno far capire che se siamo consapevoli del tempo che passiamo nei nonluoghi siamo anche più consapevoli del nostro stato emotivo e del livello di benessere percepito.
Se non siamo consapevoli del nonluogo in cui ci troviamo, del fatto che quel nonluogo non deve rappresentare un’aspirazione di socializzazione e benessere (perché non è possibile socializzare e trovare benessere in un luogo in cui non esistono comunità di valori, credenze e cultura) introietto inevitabilmente quel nonluogo dentro di me, trasformandomi a poco a poco in un individuo che trova nell’eccitazione incontrollata dei sistemi percettivi (vista, udito, ecc.) una fonte di benessere temporaneo, che svanisce non appena facciamo ingresso in un vero luogo.
Come riconoscere il non luogo psicologico?
Ci sono alcuni aspetti della personalità che sono sintomi silenti del fatto che siamo inesorabilmente virando verso una vita che si realizza nella ricerca del nonluogo, fatto che – inconsciamente o meno – ci libera da impegni morali e civili: “Nel non luogo sto bene perché mi sento vivo come non mai”.
Ed ecco che quella labile sensazione di benessere circoscritta al tempo di frequentazione di un nonluogo, al di fuori di quello si trasforma in ciò che un osservatore attento potrebbe riconoscere in atteggiamenti che denunciano solitudine, tristezza e vuoto. Queste persone, generalmente, ci racconteranno che dormono poco, sono spesso mentalmente stanche, che provano tristezza senza apparenti motivi. Volendo stilare una lista di queste denunce potremmo annoverare:
- Perdita di interessi e motivazioni;
- Rabbia improvvisa e incontrollata;
- Umore sempre diverso;
- Ansia;
- Stress inficiante;
- Depressione.
C’è chi riesce a distinguere il trascorrere del tempo nei nonluoghi da quello vissuto nei luoghi pregni di significato; c’è invece chi è convinto che non ci sia differenza tra i luoghi in cui vive, come ad esempio tra un centro commerciale e la propria abitazione, tra una stazione ferroviaria e il proprio garage… A queste persone, probabilmente, manca qualcosa, manca quella sensazione che fa loro comprendere la varietà del mondo e delle persone che ha intorno, la bontà che può scaturire da un “Buongiorno” piuttosto che da un “Venite signore ho un’offerta imperdibile per voi…”.
Probabilmente a quelle persone basterebbe un sorriso sincero in più, un po’ di sana accoglienza e… tanto ascolto!
Fonti.
- Augé, M. (1998). Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Elèuthera.
- Piramide di Maslow, wikipedia.