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Quando parliamo di bullismo pensiamo ad atteggiamenti irridenti e di sottomissione messi in atto da giovani nei confronti di vittime prescelte: la prima immagine che ci viene in mente è quella di un ragazzo, generalmente robusto, che infastidisce pesantemente un altro ragazzo, generalmente più minuto; ci immaginiamo un gruppo di giovani che prende a calci un ragazzo sdraiato a terra; pensiamo a scritte o immagini, sui muri o sui social, che deridono e offendono un altro giovane, per una qualche sua caratteristica fisica o di personalità che «si presta», ingiustificatamente, all’irriverenza.
Il bullismo può essere fisico o psicologico, singolo o di gruppo, per esprimere la propria dominanza o per ricercare popolarità. Oltre a queste caratteristiche esplicite se ne possono però trovare anche di implicite o nascoste: disagio personale o familiare, disturbi psicologici della sfera dell’affettività, espressione di una difesa psicologica come ad esempio l’acting-out (un modo per fuggire alla consapevolezza delle proprie emozioni attraverso atti agiti piuttosto che attraverso la loro mentalizzazione e consapevolezza con l’espressione verbale – rabbia, dolore, ecc.).
Quindi il “bullo” è una personalità complessa, che in ogni caso, insieme alla famiglia, dovrebbe interrogarsi seriamente non solo dei motivi di quel tipo di comportamento e delle sue conseguenze, ma anche sul significato che questi agiti hanno sul pensiero del ragazzo stesso.
Atti di bullismo in crescita.
Sempre più spesso le cronache ci parlano di atti di bullismo, tra giovani ragazzi e ragazze ma anche tra giovani e adulti. Un ragazzo che a scuola inveisce contro un docente, lasciandosi filmare in modo che quello che accade possa essere diffuso in rete, diciamo che agisce un atto di bullismo. Allo stesso modo un altro studente che offende e minaccia verbalmente un docente, lo si etichetta come bullo. Bullo è poi quello che ferisce gravemente un compagno con oggetti contundenti, che lo fa sentire un reietto con epiteti esageratamente e volontariamente fuori luogo. Bullo è chi va in giro per la città a spaccare vetrine, opere d’arte, e tutto quello che capita sotto il raggio della portata della sua volontà.
Ma corriamo un enorme rischio, perché insieme a quegli agiti palesemente violenti, definiamo atti di bullismo anche quelli del ragazzo che litiga con un compagno per conquistare una ragazza, di chi si arrabbia in modo palese contro chi ha offeso l’origine della sua famiglia, di chi per una bravata abbatte un cestino dall’immondizia…
Il bullismo, così come lo immaginava anche Moravia, potrebbe essere considerato uno “stile di vita” arrogante, spaccone, teppista e violento ma potrebbe anche avere definizioni più moderate, come quella di “bellimbusto, persona che ostenta la sua vanità maschile in abiti e atteggiamenti di ricercata, fatua e, di solito, pacchiana eleganza.” (da http://www.treccani.it/vocabolario/bullo/).
Bullismo e delinquenza.
Quindi qual è il rischio che corriamo? Metteremmo nella stessa categoria mentale di “atto di bullismo” anche situazioni estremamente differenti tra loro. Se per ogni atto – da moderatamente a estremamente violento – adottiamo la solita etichetta di “bullismo”, rischiamo di confondere atteggiamenti da “bulletto” (intesi come bravate o circostanziate, ancorché non giustificate) che scaturiscono da situazioni stimolo difensive o caratterizzati da assenza di recidiva, con quelli da vero e proprio malvivente.
Rischiamo di leggere notizie sui social, sui giornali o alla TV di ragazzi violenti, conosciuti dalla comunità locale in cui vivono come sempre violenti, i cui atti delinquenziali vengono definiti semplicemente come “bullismo”…
Il pericolo è che in questo modo si appiattisca la valenza disgregativa e disadattiva di questi tutti questi atti fuori dalle righe: che un ragazzino che “fa a botte” con un coetaneo, solo perché più forte, sia un bullo; che prendere in giro una compagna e il suo nuovo taglio di capelli sia atto di bullismo, che in ultima analisi vengano puniti e catechizzati con la stessa veemenza di quanto facciamo nei confronti di un ragazzo che con un casco in classe dà una testata al proprio professore!
In ogni caso la violenza deve essere punita e scoraggiata: non possiamo giustificarla semplicisticamente come una reazione ad un evento “stressante”. Comportamenti sempre violenti andrebbero sottoposti ad indagini accurate (non solo da parte delle forze dell’ordine ma anche dai servizi sociali).
Ho la sensazione che la comunità sociale desideri utilizzare la parola “bullismo” per definire gli atti violenti dei (propri) ragazzi.
Sarebbe un errore, perché non identificheremmo certe eccessive “bravate” con la giusta e più adeguata categoria di delinquenza o criminalità.
E quindi?
Questa potrebbe sembrare una digressione fine a se stessa e un po’ retorica se non la inseriamo in un programma di intervento e promozione per il contrasto al fenomeno del bullismo. Quali sono gli interventi che possono essere adottati dalle scuole e in generale dagli enti preposti all’educazione? Quale prevenzione può essere introdotta come formazione specifica per le famiglie e la genitorialità in senso lato? Quale approccio interpretativo gli ambienti scientifici devono attuare? Come può il pubblico osservante interpretare e non fomentare il fenomeno?
A queste domande dovremmo cercare delle appropriate risposte che senza alcun dubbio sono troppo complesse e articolate da poter essere espresse in queste righe. Quello che però vorrei sottolineare, e che potrebbe confermarsi come substrato concettuale su cui basare le specificazioni del caso, è questo:
non demonizzare, non semplificare, non generalizzare: ogni cosa ha il suo nome, ogni comportamento le proprie espressioni, ogni espressione le proprie conseguenze e ogni conseguenza il proprio impatto sociale.
Proporre un intervento formativo-correttivo per contrastare il bullismo come conseguenza a “normali litigate tra bambini” non è appropriato: piuttosto dovrebbe essere organizzato un percorso divulgativo di prevenzione per limitare l’espansione del fenomeno. Lo stesso intervento correttivo-formativo per contrastare il bullismo in casi di delinquenza è come voler colorare il mare con una goccia di colore: in questo caso non si tratta di bullismo e dunque dovrebbero essere proposti interventi per il controllo sociale.
“Mio figlio è un bulletto: lo ero anch’io da picciolo…” ha valore e conseguenze differenti se affermato da un genitore responsabile e provetto oppure da un galeotto…