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Negli anni ’80 era un oggetto di culto, negli anni ’90 lo abbiamo iniziato a trovare un po’ in tutte le case, ma più che altro lo si usava per giocare, archiviare e dare spazio alle proprie creatività. Oggi non ne possiamo più fare a meno e non lo troviamo più solo appoggiato su una scrivania ma persino integrato in un telefononino, sulle TV appese al muro, su “tavolette” che si comandano con un dito, su un orologio! Signore e Signori: il Computer!

Cerca e ricerca.

Che tempo farà, la cronaca locale, le notizie da mondi lontani (anche e non solo fisicamente), le vacanze da sogno, messaggi di amici dimenticati; e poi risposte a domande che ci vergogniamo di chiedere, ricette di cucina afrodisiaca, modi per sedurre; ma anche oggetti che è una vita che cerchiamo, passatempi, spettacoli, moda, tendenze; oppure sconfiggere la noia, cercare idee, soddisfare la nostra curiosità… Tutto questo e molto altro lo possiamo trovare su Internet. E, come si suol dire, l’appetito vien mangiando…

Il computer è in casa, a volte ce ne sono anche più di uno per famiglia; è sistemato in un posto comodo; a volte è portatile, così è possibile utilizzarlo in qualunque luogo (sì, anche in bagno…) per cui il nuovo bisogno di una “batteria a lunga durata”; ha modalità di utilizzo sempre più semplici e ormai non c’è più bisogno di effettuare corsi di formazione.

Ed è un peccato, perché nei corsi di “avviamento all’informatica” (leggasi: corsi di computer) non si insegna solo come riuscire a utilizzare il computer, bensì a entrare in contatto con le potenzialità di una esperienza soggettiva che passa dall’utilizzo di un mouse e una tastiera verso modi fatti di idee e opportunità che fino a quel momento erano impensabili!

Infatti, i giovani di oggi che sono cresciuti in un ambiente in cui quell’esperienza è parte della normale esistenza quotidiana, sono molto più facilitati nel comprendere l’utilizzo dei computer e soprattutto per conoscerne le potenzialità e tutto quello che è possibile farne – oltre alla nota facilità di apprendimento delle giovani menti. Ma un conto è essere bravi a padroneggiare le tecnologie più moderne e un altro è utilizzarle al meglio.

Per questo, per un giovane, è quasi naturale e normale utilizzare il computer per giocare, per leggere, per contattare gli amici, per fare ricerche scolastiche, per creare, per organizzare, per passare un po’ di tempo libero, per annoiarsi… Ovvero, per tutto quello che noi adulti di oggi facevamo nella nostra infanzia, il più delle volte sotto il sole estivo o a casa di qualche amico.

È cambiato lo strumento.

Quindi i ragazzi di oggi non fanno niente di più né di meno di quello che tutti noi adulti ha già fatto nella propria giovinezza: solo che lo fanno in una modalità – prendendo in prestito l’informatica – multitasking, ovvero fanno più cose, anche fra loro incompatibili, contemporaneamente.

Se vent’anni fa eravamo “quattro amici al bar”, oggi siamo “quaranta/quattrocento/quattromila amici su un qualsiasi social network” (la piazza o la corte moderne).

Un tempo la parola “amici” aveva connotati e confini ben definiti, oggi la stessa parola ha assunto un valore diverso: ha quasi più un valore di “conoscente”, “seguace”, “numero”… Se trent’anni fa seguivamo, una volta la settimana, la nostra serie di cartoni animati preferiti, oggi non si contano i canali e le repliche di un numero impressionante di cartoon. E potremmo continuare con altri esempi.

Quello che però è importante rilevare è che alla quantità e fruibilità di “passatempi” non sempre si accompagna in modo parallelo e nella stessa direzione la qualità. Tuttavia, questo non significa che ogni interesse “moderno” sia supportato da bassa qualità ma è senza dubbio vero che è disponibile un più ampio ventaglio di potenziali scelte sbagliate.

Se proviamo a essere più semplici, è utile fare un’illuminante similitudine: quando sostituiamo un vecchio strumento per utilizzarne uno più nuovo e performante, che garantisce prestazioni migliori e una resa più alta, la prima cosa che facciamo è leggere attentamente le istruzioni d’uso.

Internet, ovvero il nuovo strumento per soddisfare le nostre esigenze, curiosità, necessità, amenità, non ha un normale “manuale d’uso” per cui è fondamentale che vengano adottate – soprattutto per i più piccoli – strategie e metodi di controllo efficaci.

Tra questi potremmo annoverare l’utilizzo di programmi specifici che controllano l’uso del computer permettendo, ad esempio, di navigare solo in siti autorizzati; dei “tempificatori” di accensione e spegnimento del computer e dell’accesso a internet; ma soprattutto la presenza dei genitori e la loro costante e continua guida.

La misura del “troppo”.

Voglio subito rispondere a una domanda che alcuni genitori potrebbero porsi: “Ma io non so usare il computer, come faccio a tenere d’occhio mio figlio? Come faccio a sapere se sta troppo al computer?”. La risposta è già scritta: non tenere in casa un computer oppure preoccuparsi di allinearsi ai tempi cercando di frequentare un buon corso di aggiornamento. Sgombrato il terreno da questa possibile “via di scampo” (mi riferisco a certi casi di de-responsabilizzazione involontaria), vorrei provare ad approcciare alla domanda iniziale cercando una definizione del “troppo”.

In casi come “Mangi troppo”, “Corri troppo”, “Urli troppo” l’avverbio si riferisce a certi limiti che possono essere comunemente condivisi e/o regolati da definizioni di buon senso (il troppo mangiare potrebbe portare a obesità; il troppo correre potrebbe causare affaticamenti e/o rischi di caduta; il troppo urlare potrebbe svegliare vicini dormiglioni e causare la loro ira nei nostri confronti…). Ma “stare troppo al computer” a quali parametri si deve adattare? Se escludiamo casi in cui la permanenza al computer è legata a fattori specifici (scrittura di una relazione da presentare a una determinata scadenza; ricerche; lavoro; ecc.), dovremmo essere più consapevoli dei seguenti fattori di rischio:

  • Bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per ottenere soddisfazione;
  • Marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano Internet;
  • Sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa vi accada, classici sintomi astinenziali;
  • Necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi più prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
  • Impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l’uso di Internet;
  • Dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete;
  • Insistere a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici arrecati da esso.

L’inizio della dipendenza.

Questi criteri furono individuati nel 1995 da Ivan Goldberg che li mutuava dalla definizione della Dipendenza da Gioco d’Azzardo descritta nel DSM-IV TR. Il DSM – Diagnostic and Statistical Manual of mental desorder –, oggi alla sua quarta edizione, è uno degli strumenti diagnostici per disturbi mentali più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo; la prima versione risale al 1952 (DSM-I) e fu redatta dall’American Psychiatric Association (APA).

In seguito anche altri si interessarono dell’argomento, che subito suscitò interesse anche per il fatto che si stavano aprendo le porte a una nuova patologia psicologica che si sviluppava intorno a un oggetto che stava cambiando il modo di vivere. Anche Kimberly Young (psicologa e direttrice del Centre for Online Addiction di Bradford negli Stati Uniti) si è molto interessata allo studio della dipendenza da Internet, stilando anche lei una serie di domande la cui risposta affermativa risultava necessaria per poter stabilire che siamo potenzialmente di fronte al Disordine di Dipendenza da Internet, IAD (si legga http://www.netaddiction.com ). Provate a rispondere a queste domande e sottoponetele anche ai più piccoli:

  1. Ti senti preoccupato nell’utilizzo di Internet (pensieri concernenti precedenti attività online o anticipatori di prossime sessioni online)?
  2. Senti la necessità di usare Internet con quantità crescenti di tempo al fine di raggiungere la soddisfazione?
  3. Hai ripetutamente compiuto sforzi infruttuosi di controllare, ridurre o interrompere l’uso di Internet?
  4. Ti senti irrequieto, lunatico, depresso o irritabile quando tenti di ridurre o interrompere l’uso di Internet?
  5. Vuoi rimanere online più di quanto inizialmente previsto?
  6. Hai messo a repentaglio o rischiato la perdita di relazioni significative, lavoro, opportunità scolastiche o di carriera a causa di Internet?
  7. Hai mentito ai familiari, al terapeuta o ad altri per occultare l’entità del coinvolgimento con internet?
  8. Usi Internet come un modo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico (per esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione)?

Non è difficile comprendere che tanto più abbiamo risposto “” alle domande (ma almeno a cinque) tanto più c’è il rischio di un Disordine Psicologico.

Sull’eziologia del disturbo, ancora non si è giunti a una definizione condivisa. C’è addirittura chi sostiene che non esista una specifica patologia da dipendenza da Internet (e in generale dalle altre dipendenze senza sostanza come lo shopping, il sesso, il gioco, ecc.) ma che si tratti di una particolare espressione (o sintomo) di una patologia che riguarda la sfera del comportamento; c’è invece chi lo spiega come un potenziale che altera l’umore legato ai processi di dipendenza (si legga http://www.minddisorders.com/Flu-Inv/Internet-addiction-disorder.html ). In altre parole, l’individuo può sentire una particolare eccitazione o un cambio piacevole d’umore derivante dalla sequenza (rito) di attività relative alla “pianificazione” della prossima attività di navigazione in Internet (ad esempio la sequenza tipica è: accendere il computer, aprire il programma di navigazione, digitare il nome del sito preferito, attendere il caricamento della pagina, ottenere i risultati, soddisfare la curiosità, ecc.).

Reale e Virtuale.

Un’altra feroce critica che può essere sollevata riguardo al tempo che viene trascorso davanti al computer, è quella relativa alla perdita di contatto con la realtà e relativa perdita di interesse alle attività reali socializzanti (contatto e interazione fisica), in quanto spesso sostituite da attività virtuali (contatto e interazione mediata).

È indubbio che navigare in rete tolga tempo alle attività sociali vis-à-vis, quelle che non ci stanchiamo di raccontare ai nostri figli essere state una delle nostre priorità (e virtù) di quando eravamo piccoli. Poi però, lo stesso genitore che racconta le sue gesta di guerre tra bande di quartiere e partite interminabili a calcetto, tennis, ecc., e relative sudate, denuncia il fatto che “oggi non è più come una volta“, che “le strade non sono più sicure“, che “non esistono più i prati verdi di un tempo” e che “in giro si vedono sempre di più brutti ceffi“… E come dare torto a un genitore così apprensivo; come negare che le città siano cambiate (spesso in peggio) rispetto a molti anni fa.

Tuttavia risulterebbe troppo riduttivo spiegare la permanenza sulle pagine di Internet con la giustificazione che è pericoloso uscire fuori all’aria aperta.

Quello che però è importante sottolineare è il fatto che richieste e comportamenti vanno sempre contestualizzati alla disponibilità di risorse e che la costruzione di schemi mentali e “script” (modelli) comportamentali non può prescindere da ciò che in quel momento è disponibile sia alla nostra percezione che alla nostra coscienza. In altre parole, facciamo quello che preferiamo e con i mezzi che abbiamo a disposizione e che abbiamo imparato ad utilizzare, senza demonizzarli ma nemmeno santificarli!

Lo stesso Goldberg, il primo teorizzatore della IAD, ha cercato di rivedere la sua posizione nel 1997: “Ironizzando, si potrebbe estendere il concetto di dipendenza fino ad includere tutto ciò che la gente fa in eccesso: leggere libri, esercizi fisici, chiacchierare …”, dichiarò alla rivista The New Yorker. Addirittura molti psicologi e psichiatri hanno trascorso gli ultimi anni nel cercare di smantellare certi “miti”: Scott Caplan, docente presso l’Università di Delaware (USA), ha condotto una ricerca sulla relazione tra interazione sociale e Internet i cui risultati sono rivelatori: persone affette da ansia, depressione e difficoltà di socializzazione tendono ad usare di più internet e non viceversa. Cioè, la rete non crea patologie, ma canalizza quelle esistenti (fonte: Salute ADUC  http://salute.aduc.it/articolo/dipendenza+internet+bufala+nata+psichiatra+burlone_17619.php ).

Rimanere troppo al computer e su internet, dunque, fa male?

La risposta è: .

Andiamo però cauti nell’assegnare una categoria nosografica a questi comportamenti. Ogni troppo è dannoso: troppe vitamine, troppo stress, troppo lavoro, troppo sonno, troppa TV, e così via, ma un’errata valutazione del “troppo” è altrettanto dannosa che non accorgersi di aver superato il limite: quello che non è troppo per me, potrebbe esserlo per altri e viceversa.

Non sempre però è facilmente determinabile tale misura: in assenza di esperienze personali adeguate e/o conoscenze appropriate, può succedere che potremmo non porci il problema di valutare un comportamento come eccessivamente reiterato, oppure preoccuparci senza un motivo oggettivamente apparente.

…ma è grave?

La risposta è: Dipende, dobbiamo valutare caso per caso.

Un genitore che chiede un parere a un professionista denuncia in ogni caso un malessere che, a ben vedere, potrebbe avere diverse origini e altrettante spiegazioni; spesso “il figlio che sta troppo al computer” è solo un sintomo.

(A supporto di questa tesi ci viene incontro la teoria del modello psicoterapeutico Sistemico-relazionale e Familiare che definisce paziente designato – nel nostro caso il giovane che sta troppo al computer – il portatore di un sintomo che rappresenta l’espressione di un malessere che in realtà radica nel “sistema-famiglia”. Per approfondimenti http://www.vertici.it/servizi/esperto/template.asp?cod=10886)

Solo per fare alcuni esempi, potremmo trovarci di fronte a sentimenti di inadeguatezza di uno o entrambi i genitori; alla loro perdita del controllo delle attività del figlio; alla loro percezione di allontanamento di quest’ultimo; al desiderio del figlio di allontanarsi dai genitori senza un motivo “evolutivo”; alla mancanza di una adeguata comunicazione tra i componenti della famiglia; a un effettivo disturbo della personalità del giovane; e così via.

Non esiste quindi una risposta univoca alla domanda iniziale: solo un’analisi approfondita delle relazioni familiari e dell’effettiva quantità e qualità di tempo speso al computer potrà fornire quelle risposte che certe famiglie – a volte troppo zelanti, a volte troppo assenti – cercano.

Infine, un altro punto di vista.

Prima di chiudere vorrei invitarvi, ognuno con ciò che crede più “ossessionante”, a cambiare i termini nella definizione dei sintomi Disordine da Dipendenza da Internet sostituendo le XXX che vedrete nelle seguenti affermazioni con un comportamento/atto (per esempio “leggere”, “ridere”, “dipingere”, “cucinare”, ecc.):

  • Bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore a XXX per ottenere soddisfazione;
  • Marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano XXX;
  • Sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso di XXX, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa vi accada, classici sintomi astinenziali;
  • Necessità di XXX sempre più frequente o per periodi più prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
  • Impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo XXX;
  • Dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate a XXX;
  • Continuare a XXX nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati da esso.

Lascio a ognuno di voi il compito di trarre le proprie considerazioni.

Riferimenti bibliografici.

  • APA (2001), DSM-IV-TR, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali quarta edizione, Masson, Milano.
  • Cantelmi, T., Talli, M., Del Miglio, C., D’Andrea, A., (2000) La mente in Internet. Psicopatologia delle condotte on-line, Piccin, Padova, 2000
  • Caretti, V., La Barbera, D. (a cura di), (2000) Psicopatologia delle realtà virtuali. Masson, Milano
  • Guerreschi, C. (2005) New Addictions. Le nuove dipendenze. San Paolo Edizioni, Milano.

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